Ministero della Cultura - MIC-Direzione generale archivi

Servizio Archivistico Nazionale

Archivi d'impresa

OLIVETTI, Adriano

Fotografia a mezzo busto di Adriano Olivetti con firma autografa, 1925 (Fondazione Adriano Olivetti, Fondo Famiglia Olivetti)

 
 

Ivrea, 11 aprile 1901 - Aigle (Svizzera), 27 febbraio 1960

Figlio primogenito di Camillo Olivetti, fondatore della società omonima, la prima ad avviare in Italia la produzione di macchine per scrivere.

Gli anni della formazione e l’ingresso in azienda

Diplomatosi presso la sezione fisico-matematica dell’Istituto tecnico di Cuneo, nell’aprile del 1918 si arruola volontario nel 4° reggimento Alpini. Terminato il servizio militare si iscrive al Politecnico di Torino e inizia a partecipare in maniera attiva al dibattito sociale e politico, collaborando alle riviste «L’azione riformista» e «Tempi Nuovi» di cui il padre è rispettivamente l’editore e il principale finanziatore, ed entrando in contatto con Piero Gobetti e Carlo Rosselli. Nel novembre del 1924 è uno dei protagonisti della fuga di Filippo Turati, ricercato dalla polizia fascista: è lui a guidare la vettura che porta in salvo il leader socialista in Francia.
Nell’agosto del 1925, conseguita la laurea in ingegneria chimica al Politecnico di Torino, dopo un breve periodo di apprendistato nell’azienda paterna come operaio, parte per un viaggio di studio negli Stati Uniti, durante il quale ha l’occasione di visitare numerosi stabilimenti industriali. L’esperienza americana, e in particolare la conoscenza diretta delle nuove tecniche di organizzazione industriale della produzione in serie, lo spingono, un volta tornato in Italia, a proporre al padre una vasta serie di misure mirate alla modernizzazione dell’azienda – adozione dell’organizzazione per funzioni, razionalizzazione dei tempi e dei metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero – e a porre le basi per una sua crescita dimensionale.
Gli anni fra il 1926 e il 1933 sono caratterizzati, per la società Olivetti, da un forte aumento della produttività e delle vendite, che fra il 1924 e il 1937 aumentano di oltre otto volte, passando da 4.000 a 37.000 unità, di cui un quarto all’estero. Grazie alla riorganizzazione della produzione e alle cure dedicate all’espansione della rete commerciale, e anche all’espansione della domanda di macchine per ufficio, l’azienda è tra le poche imprese meccaniche italiane a non risentire della crisi e a non ridurre l’occupazione. Il peso acquisito da Olivetti nell’elaborazione della strategia di sviluppo dell’azienda è sancito dalla nomina a direttore generale nel dicembre del 1932, ruolo grazie al quale può proseguire l’opera di rinnovamento tecnico-organizzativo della produzione. Particolare cura viene riservata al design delle nuove macchine – sempre nel 1932 inizia la commercializzazione della MP1, la prima macchina per scrivere portatile prodotta dall’azienda, progetto da lui fortemente sostenuto – e al potenziamento dell’Ufficio pubblicità, divenuto autonomo nel 1931 e con il quale verranno chiamati a collaborare nel corso degli anni alcuni dei nomi più importanti dell’avanguardia artistica italiana: dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini – cui viene affidata anche la progettazione della “Fabbrica di vetro”, il nuovo corpo di fabbrica dello stabilimento di Ivrea caratterizzato da una parete di vetro di 130 metri che ne ricopre l’intera facciata – ai poeti Leonardo Sinisgalli, Franco Fortini e Giovanni Giudici e ai designer Marcello Nizzola, Giovanni Pintori ed Ettore Sottsass.

 

La scuola materna Olivetti a Borgo Olivetti, Ivrea 1945-1979 (Associazione archivio storico Olivetti, Fondo Olivetti)

 
 

Un modello di “capitalismo sociale” tra fabbrica e territorio
Gli anni compresi fra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta rappresentano anche il periodo durante il quale va consolidandosi il pensiero politico e sociale di Olivetti. La riflessione sui problemi legati allo sviluppo industriale, in particolare sulla contraddizione fra la necessità di continui incrementi della produttività come precondizione della crescita economica e l’“alienazione” del lavoro salariato, parcellizzato e ripetitivo, lo spinge ad individuare nel rafforzamento del legame fra la fabbrica e la circostante comunità locale la stanza di compensazione degli squilibri sociali creati dall’industria. L’elaborazione delle idee di Olivetti trova voce sulle pagine della rivista «Tecnica ed organizzazione», da lui stesso fondata nel 1937 e dove pubblica vari saggi di tecnologia, economia e sociologia industriale, e conosce un primo sbocco concreto nel corso degli anni Trenta, prima con l’avvio a Ivrea di un vasto programma di costruzione di nuovi edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense, asili e la realizzazione di un articolato sistema di servizi sociali, e successivamente con la partecipazione diretta agli studi per un piano regolatore della Valle d’Aosta (provincia di cui faceva parte Ivrea in quegli anni).
L’interesse per l’architettura e l’urbanistica continuerà anche nel dopoguerra: nel 1948 viene eletto nel consiglio direttivo dell’Istituto nazionale di urbanistica, nel 1949 assume la direzione della rivista dell’istituto – «Urbanistica» – e l’anno successivo viene infine eletto alla presidenza dell’istituto stesso. Nel 1956 diventa membro onorario dell’American Institute of Planners e vicepresidente dell’International Federation for Housing and Town Planning, mentre nel 1959 viene nominato presidente dell’Istituto UNRRA-Casas, a cui è affidata la gestione della ricostruzione post-bellica in Italia. Tra i numerosi riconoscimenti che gli sono attribuiti vi sono, nel 1955, il Compasso d'oro per meriti conseguiti nel campo dell'estetica industriale e, nel 1956, il Gran Premio di architettura del Cercle d’études architecturales di Parigi per "i pregi architettonici, l’originalità del disegno industriale, le finalità sociali e umane presenti in ogni realizzazione Olivetti".
Nel 1947 diventa inoltre il principale finanziatore del neonato CEPAS (Centro di educazione per assistenti sociali), fondato dal filosofo Guido Calogero allo di scopo introdurre anche in Italia questa figura professionale, sviluppatasi originariamente all’interno della tradizione anglosassone del social work.