Ministero della Cultura - MIC-Direzione generale archivi

Servizio Archivistico Nazionale

Archivi d'impresa

PIRELLI, Leopoldo

Gianni Leoni che stabilisce il record mondiale di velocità su motocicletta gommata Pirelli, 1948 (Fondazione Pirelli, Archivio storico, Fondo Propaganda)

 
 

Velate Varesino, 27 agosto 1925 - Portofino, 23 gennaio 2007

Figlio di Alberto Pirelli e nipote di Giovanni Battista Pirelli, subito dopo la laurea in ingegneria meccanica, conseguita nel 1950 al Politecnico di Milano, fa il suo ingresso nell'azienda, iniziando quell’apprendistato che dovrà portarlo a prendere le redini dell’impresa di famiglia. Si tratta di una scelta quasi obbligata, soprattutto dopo che il fratello maggiore Giovanni, rifiutando il ruolo di erede designato, aveva abbracciato gli ideali socialisti e si era dedicato alla letteratura.
Il percorso di apprendimento preparato dal padre mira ad impratichire il giovane Pirelli nelle diverse leve gestionali di un’azienda che, fondata nel 1872, attraverso un continuo processo di espansione internazionale ha assunto ormai i caratteri di un vero e proprio gruppo multinazionale, dotato di un notevole livello di diversificazione dal punto di vista delle produzioni così come in termini geografici, con il controllo di società industriali operanti in Belgio, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna, Turchia, e nelle Americhe. Fra il 1951 e il 1955 il giovane imprenditore completa la propria preparazione professionale presso gli uffici della Pirelli di Basilea, Bruxelles e Londra, passando poi a ricoprire i primi veri incarichi dirigenziali negli stabilimenti di Tivoli e di Milano Bicocca. Nel 1956 diventa amministratore delegato e vicepresidente dell’azienda, assumendo poi, nel 1959, in seguito all’ictus che colpisce il padre, anche le residue responsabilità operative.
L’azienda di cui Pirelli assume la guida rappresenta in quel momento una delle principali imprese private italiane – la terza per fatturato, dietro Montedison e Fiat – con 76.000 dipendenti e oltre 80 stabilimenti produttivi nel mondo. Non mancano tuttavia i motivi di preoccupazione. Nel 1965 – anno in cui assume la carica di presidente – poco meno della metà del fatturato (il 45%) proviene dagli pneumatici, il 40% è prodotto dai cavi, mentre il restante 15% deriva dai prodotti in gomma per l’industria e il consumo. In questo stesso periodo il mercato internazionale degli pneumatici è pero soggetto a radicali cambiamenti. Da un lato, infatti, la competizione comincia ad assumere caratteri globali e le compagnie europee e americane si confrontano non solo entro i singoli mercati locali, ma a livello internazionale; dall’altro, esse cominciano a concorrere non solo sul piano commerciale, ma anche su quello degli investimenti diretti, per via della sempre più frequente diffusione di tariffe protettive all’entrata. La Pirelli si trova a dover competere, praticamente nel “cortile di casa”, con multinazionali statunitensi come Firestone e Goodyear, che costruiscono impianti di produzione in Italia nel corso degli anni Sessanta, anche se la minaccia più grave si dimostra in realtà quella rappresentata dalla francese Michelin, che riesce addirittura a strappare all’azienda italiana l’esclusiva della fornitura di pneumatici alla Fiat.

 

 

Alberto e Leopoldo Pirelli sul grattacielo Pirelli in costruzione, Milano 1959 (Fondazione Pirelli, Archivio storico, Fondo Propaganda)

 
 

Alla fine del decennio Sessanta, almeno per quanto riguarda l’Italia, si profila un ulteriore problema, quello rappresentato dall’elevato costo del lavoro. Pirelli è uno dei più decisi, fra gli imprenditori italiani, nel sottolineare l’aggravarsi del divario di competitività con le altre economie avanzate, arrivando nel 1967 a scrivere direttamente al presidente del consiglio, Aldo Moro, per segnalare l’eccessivo peso assunto dagli oneri sociali sul totale delle retribuzioni. Eppure, di fronte al progressivo peggioramento delle relazioni industriali negli stabilimenti di Milano e Settimo Torinese, dove a partire dall’estate del 1968 le proteste operaie diventano sempre più accese, è lui stesso a spingere il consiglio di amministrazione della Pirelli - nel marzo 1969 - ad approvare un provvedimento unilaterale per accogliere alcune delle rivendicazioni operaie, fra cui la settimana lavorativa di cinque giorni per tutti i lavoratori e la riduzione dell’orario di lavoro settimanale a parità di retribuzione. Il provvedimento, noto come “decretone”, che rappresenta non solo una straordinaria apertura nei confronti dei lavoratori, ma anche una anomalia nel teso panorama sindacale italiano dell’“autunno caldo”, viene però respinto dai sindacati dei lavoratori, in quanto visto come un tentativo da parte della direzione aziendale di scavalcare le forze sindacali stesse. La proposta del “decretone” del 1969, per quanto peculiare dell’azienda milanese e della particolare sensibilità di Pirelli, non è tuttavia completamente estemporanea, rappresentando in un certo senso la risposta che una parte delle grandi imprese italiane cerca di dare alle trasformazioni sociali indotte dagli elevati tassi di crescita industriale fatti segnare nel corso dei due decenni precedenti. Soprattutto, può essere interpretata come un tentativo di modificare quello che fino a quel momento era stato l’atteggiamento imprenditoriale di fronte al conflitto sindacale, e in particolare l’atteggiamento del maggiore organismo di rappresentanza degli imprenditori, la Confindustria: una posizione improntata alla più integrale chiusura e conservazione, che aveva caratterizzato la politica sindacale della Confederazione negli anni di Angelo Costa, rieletto presidente per la seconda volta nel 1966. In questi anni Pirelli si fa garante, in quanto membro della giunta confederale e, dal 1974, vicepresidente, di un movimento di giovani industriali che tenta di promuovere uno svecchiamento della struttura confindustriale e la sua trasformazione da organizzazione fornitrice di servizi in un soggetto politico capace di rappresentare gli interessi degli industriali davanti alle istituzioni e al movimento sindacale. Nella primavera del 1969 Pirelli diventa presidente di una commissione, che passa alla cronaca con il suo nome, incaricata dall’assemblea della Confindustria di formulare una proposta di riforma dell’associazione. La commissione, della quale fanno parte altri eredi di grandi famiglie industriali quali Gianni Agnelli e Roberto Olivetti, dopo alcuni mesi di lavoro pubblica, all’inizio del 1970, un documento – il cosiddetto “Rapporto Pirelli” – nel quale propone un ripensamento della struttura organizzativa della Confederazione, auspicandone una maggiore democraticità e la sua trasformazione da associazione di semplice coordinamento a sistema maggiormente integrato, in grado di dare soluzione al problema della rappresentanza politica e della rinnovata legittimazione della figura dell’imprenditore. Si tratta tuttavia di una proposta che fatica ad ottenere consenso fra la componente più tradizionale dell’imprenditoria italiana, e che rimane in gran parte non realizzata.