PIRELLI, Leopoldo
Gianni Leoni che stabilisce il record mondiale di velocità su motocicletta gommata Pirelli, 1948 (Fondazione Pirelli, Archivio storico, Fondo Propaganda)
Velate Varesino, 27 agosto 1925 - Portofino, 23 gennaio 2007
Alberto e Leopoldo Pirelli sul grattacielo Pirelli in costruzione, Milano 1959 (Fondazione Pirelli, Archivio storico, Fondo Propaganda)
Alla fine del decennio Sessanta, almeno per quanto riguarda l’Italia, si profila un ulteriore problema, quello rappresentato dall’elevato costo del lavoro. Pirelli è uno dei più decisi, fra gli imprenditori italiani, nel sottolineare l’aggravarsi del divario di competitività con le altre economie avanzate, arrivando nel 1967 a scrivere direttamente al presidente del consiglio, Aldo Moro, per segnalare l’eccessivo peso assunto dagli oneri sociali sul totale delle retribuzioni. Eppure, di fronte al progressivo peggioramento delle relazioni industriali negli stabilimenti di Milano e Settimo Torinese, dove a partire dall’estate del 1968 le proteste operaie diventano sempre più accese, è lui stesso a spingere il consiglio di amministrazione della Pirelli - nel marzo 1969 - ad approvare un provvedimento unilaterale per accogliere alcune delle rivendicazioni operaie, fra cui la settimana lavorativa di cinque giorni per tutti i lavoratori e la riduzione dell’orario di lavoro settimanale a parità di retribuzione. Il provvedimento, noto come “decretone”, che rappresenta non solo una straordinaria apertura nei confronti dei lavoratori, ma anche una anomalia nel teso panorama sindacale italiano dell’“autunno caldo”, viene però respinto dai sindacati dei lavoratori, in quanto visto come un tentativo da parte della direzione aziendale di scavalcare le forze sindacali stesse. La proposta del “decretone” del 1969, per quanto peculiare dell’azienda milanese e della particolare sensibilità di Pirelli, non è tuttavia completamente estemporanea, rappresentando in un certo senso la risposta che una parte delle grandi imprese italiane cerca di dare alle trasformazioni sociali indotte dagli elevati tassi di crescita industriale fatti segnare nel corso dei due decenni precedenti. Soprattutto, può essere interpretata come un tentativo di modificare quello che fino a quel momento era stato l’atteggiamento imprenditoriale di fronte al conflitto sindacale, e in particolare l’atteggiamento del maggiore organismo di rappresentanza degli imprenditori, la Confindustria: una posizione improntata alla più integrale chiusura e conservazione, che aveva caratterizzato la politica sindacale della Confederazione negli anni di Angelo Costa, rieletto presidente per la seconda volta nel 1966. In questi anni Pirelli si fa garante, in quanto membro della giunta confederale e, dal 1974, vicepresidente, di un movimento di giovani industriali che tenta di promuovere uno svecchiamento della struttura confindustriale e la sua trasformazione da organizzazione fornitrice di servizi in un soggetto politico capace di rappresentare gli interessi degli industriali davanti alle istituzioni e al movimento sindacale. Nella primavera del 1969 Pirelli diventa presidente di una commissione, che passa alla cronaca con il suo nome, incaricata dall’assemblea della Confindustria di formulare una proposta di riforma dell’associazione. La commissione, della quale fanno parte altri eredi di grandi famiglie industriali quali Gianni Agnelli e Roberto Olivetti, dopo alcuni mesi di lavoro pubblica, all’inizio del 1970, un documento – il cosiddetto “Rapporto Pirelli” – nel quale propone un ripensamento della struttura organizzativa della Confederazione, auspicandone una maggiore democraticità e la sua trasformazione da associazione di semplice coordinamento a sistema maggiormente integrato, in grado di dare soluzione al problema della rappresentanza politica e della rinnovata legittimazione della figura dell’imprenditore. Si tratta tuttavia di una proposta che fatica ad ottenere consenso fra la componente più tradizionale dell’imprenditoria italiana, e che rimane in gran parte non realizzata.